L’uscita del tunnel
Il primo teorico di Hollywood, Aristotele, sosteneva che “Ogni nostro stato di felicità o di infelicità assume la forma di un’azione”. Si potrebbe aggiungere che ogni conflitto di valori, idee o visioni può e deve “assumere la forma di un’azione”.
Sono parole da tenere presenti mentre iniziamo a vedere l’uscita del tunnel e sbirciare il finale della storia, che a mio avviso si presta meno agli schemi e alle guide concettuali.
Sull’inizio infatti si può quasi “teleguidare” chi scrive senza neanche sapere cosa sta scrivendo. Basta fare domande. C’è un protagonista definito? Ha una volontà precisa e – possibilmente – interessante? Quali ostacoli esterni si oppongono alla sua volontà? E quali ostacoli interiori? Cosa desidera e di cosa ha paura? C’è un evento che “mette in moto” la storia?
All’inizio la maggioranza delle narrazioni ha questo schema (poi, certo, non è riconoscibile come schema perché le risposte alle domande devono diventare un racconto vivo, originale, emotivamente vero. Ma le domande “check up” si possono porre).
Sul finale no, non ci sono domande precise per fare il check up. Persino i manuali di sceneggiatura, che provano a ricavare una regola anche sulla disposizione dei peli del naso, quando arrivano al finale cominciano ad intorcinarsi o a diventare evasivi. Sul concetto che dovrebbe essere decisivo, quello di climax, spendono tutti pochissime parole, come se nessuno in realtà l’avesse mai capito bene e, per prudenza, si limitassero a nominarlo. Inoltre, tra i diversi teorici, sulla scansione delle fasi finali si aprono divergenze abissali: mentre sui primi tre quarti della storia esprimono tutti circa gli stessi concetti (magari cambiando un po’ i nomi), quando si arriva alle “regole per il finale” ognuno la racconta in modo diverso, e nessuno pare davvero soddisfacente.
La verità secondo me è semplice [parentesi, ricordo che quando parlo di “verità” mi riferisco sempre a piccole verità da artigiano praticone: la promessa di questo corso è “raccontare quello che so su come scrivere una storia”, non “affermare cose giuste”], quindi, dicevo, la verità per me è semplice: sul finale non c’è molto da dire.
Infatti il modo in cui si costruisce l’inizio è universale, ma andando avanti ogni storia ben fatta traccia una sua propria strada, disegnandola nel nulla. Ed ecco la fotografia: siete in mezzo a una tundra deserta su una strada che avete costruito voi. Nessuno può dirvi come e dove concluderla.
Spesso non solo i contenuti, ma anche la forma del finale, la sua struttura e la sua scansione, vanno inventati “su misura” in base al percorso che precede. Nell’affrontare la parte più importante della storia siete soli.
Perché una cosa è sicura: il finale è la parte più importante della storia. Su questo la stragrande maggioranza dei narratori è pronta a scommettere.
“Se quello che hai messo in piedi non si scioglie nell’epilogo, hai fallito” diceva Billy Wilder.
E il giallista Mickey Spillane: “Il lettore mica legge per arrivare a metà, legge per arrivare alla fine, quindi l’epilogo deve essere così buono da giustificare tutto il tempo perso con quel libro tra le mani”.
Edgar Allan Poe: “Il climax è l’interrogazione finale la cui risposta deve contenere in sé un fardello inimmaginabile di dolore e di disperazione. Si può dire che il componimento prenda inizio da questo punto: dalla fine, cioè da dove tutte le opere d’arte dovrebbero incominciare”.
Nel finale i nodi vengono al pettine. Le domande che avete aperto devono trovare risposta, i conflitti innescati devono avere una conclusione; devono esserci dei vincitori e dei vinti, dei cambiamenti nei personaggi. E sarebbe bello che un senso – una parvenza di senso, un vago odore – si sprigionasse dalla sequenza di azioni che chiude la storia.
Il finale è il momento più alto della vostra responsabilità di scrittori, quello in cui vi rivelate e, volenti o no, esprimete ciò che pensate, forse anche ciò che siete. Qualcuno, leggendo, starà meditando di cavarsela con un finale aperto. Ma non funziona, anche il finale aperto vi rivela: a parte i rari casi in cui è davvero “necessario alla storia”, vi rivela come persona che non vuole prendersi responsabilità.
[appunto di sociologia onirica. Forse si può misurare il livello di responsabilità di una società dalla diffusione dei finali aperti nelle sue narrazioni. Le due cose sembrano andare di pari passo: nei periodi storici in cui non ci si prende la responsabilità dei finali, cala la disponibilità generale a prendersi responsabilità nella vita. Le generazioni dei finali aperti non prendono mai il potere e fanno meno bambini. Fine della sociologia onirica. Scusate ma abbiamo attenti lettori al Censis!].
Insomma, il finale è la parte più importante della vostra storia, e nessuno può aiutarvi a farlo. C’è una campagna deserta e una strada che avete costruito voi. Dove e come terminarla? Una indicazione c’è ma non la trovate in corsi e manuali: sta nel cammino che avete tracciato. Se il percorso della vostra storia è stato costruito bene, c’è una sola destinazione possibile e sta a voi trovarla.
“In una buona storia il finale non solo è giustificato, ma è l’unica conseguenza possibile” (John Vorhaus). Insomma, il finale della vostra storia è già scritto. Basta sperimentare 10, 20, 30 idee: quando arriverà quella giusta, lo saprete.
Pubblicità: per non vederla mai più, basta leggere il romanzo. Il sistema vi legge nel cervello, se conoscete la trama il pulsante non appare più 🙂
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OK, SONO SEMPRE IO
Il corso è un regalo, sta qua dal 2009 e non l’ho mai usato per promuovere le mie cose.
Faccio eccezione per questo romanzo a cui tengo in modo particolare.
Perché è il mio primo vero romanzo, perché sognavo di farlo da quando ero bambino, perché secondo me è molto bello.
Puoi leggerlo perché ti piace lo stile con cui è scritto il sito.
Per capire se e come le regole del corso funzionano nella pratica di una narrazione.
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Oppure puoi non leggerlo, io capirò: la vita è breve e i libri sono tanti. Però un po’ mi dispiace.
Micro-corso di sceneggiatura
Ma non voglio cavarmela con questo suggerimento misticheggiante e vago. C’è un’altra cosa – importante – che si può fare per avere un buon finale: ragionare su ciò che viene prima, la parte centrale della storia. L’abbiamo già trattata nella lezione 4, ma era, come dire, una visione della parte centrale come “conseguenza dell’inizio”. Invece va vista e pensata, anche e soprattutto, come “preparazione alla fine”. Se è costruita bene, parlerà, vi manderà segnali su come va costruito il finale della vostra storia.
Se invece la parte centrale non funziona vi manderà segnali incoerenti e dovrete rassegnarvi a improvvisare un finale un po’ a caso. Magari, come dice Henry James con sarcasmo, farete uno di quei lieti fini con “distribuzione di premi, pensioni, mariti, mogli, bambini, milioni, paragrafi aggiunti e allegri commenti”. Oppure il contrario: distribuzione di dolori, miserie, divorzi, aborti e straziati lamenti. Comunque un finale arbitrario, che nasce da una improvvisazione, anziché cadere come il frutto maturo della storia scritta sinora.
Il finale è infatti la cartina di tornasole di tutto il percorso: se avete camminato bene, salterà fuori (anche se magari non subito) un bel finale. Se non salta fuori, avete camminato male.
Il guaio spesso si annida nella parte centrale della storia, un terreno vasto e infido, una sorta di “grande centro” paludoso dove spesso ci si pianta, la tensione cala, si cade nelle ripetizioni o si imboccano deviazioni che non c’entrano. È la parte dove, nelle iper-storie, appaiono alieni, serial killer ciechi e buchi neri. È la parte in cui, nelle non-storie, il protagonista inizia a ripetere quel che ha fatto all’inizio, con gran noia sua e nostra. Far avanzare la storia nella parte centrale (avanzare, non deviare o tirare in lungo) è un compito difficile.
Per affrontarlo meglio ci faremo aiutare dalla tecnica narrativa forse oggi più codificata, quella che si usa nelle sceneggiature per il cinema. Sinora ho preso concetti da lì come dalla narrativa e dal teatro. Per affrontare meglio il tema “finale & dintorni” (nei vari mezzi) ora faremo un micro-corso accelerato di struttura narrativa per il cinema. Ci darà qualche concetto utile.
La struttura in tre atti
Secondo i manuali di sceneggiatura la parte centrale è racchiusa tra due svolte importanti. Quella che chiude il primo atto e quella che apre il terzo. Io non ho mai parlato della struttura in tre atti perché davo per scontato che la conosceste tutti, ma forse è meglio fare un passo indietro.
La struttura in tre atti è una teoria estetica più antica del cristianesimo. Fu elaborata la prima volta da Aristotele nel IV secolo Avanti Cristo ragionando sulla struttura della tragedia greca. Per secoli è stata usata da drammaturghi europei, ha permeato la struttura delle fiabe popolari e dei cantastorie ed è stata usata per scrivere romanzi. Infine negli ultimi 50 anni è diventata (con varianti assortite) la Bibbia di Hollywood.
In sintesi: la teoria dei tre atti resiste da troppo tempo, in troppi contesti e mezzi diversi, per essere arbitraria o solo “estetica”. È evidente che è connessa a qualche legge oggettiva insita nella percezione umana, o perlomeno in quella occidentale. Possiamo e dobbiamo rinfrescare questa struttura, rinnovarla e mascherarla (anche perché l’uso massiccio che ne ha fatto l’industria dell’audiovisivo Usa l’ha resa così familiare da suscitarci un senso di deja-vu quando la troviamo applicata in modo troppo lineare). Però non possiamo prescinderne, almeno secondo me. Presentarsi dicendo “Oè babbei, sono 2400 anni che sbagliate, adesso arrivo io e vi spiego come funziona” non mi è mai parsa una buona idea.
In sintesi, cerchiamo di capire come funziona la struttura in tre atti vedendola in due versioni: una pura (ne parla ad esempio Yves Lavandier) e una “modificata” (ne parlano tra gli altri Syd Field, Robert McKee, Linda Sieger, eccetera).
La struttura in tre atti (versione pura).
Primo atto
Presentazione di personaggi e ambiente. Accade l’evento scatenante che mette in moto la storia e crea la volontà del protagonista di conquistare qualcosa che desidera (o riconquistare qualcosa che ha perso). Insomma si stabilisce la domanda iniziale: X vuole la tal cosa, ce la farà a raggiungerla?
Secondo atto
L’escalation, cioè la lotta del personaggio per raggiungere il suo obiettivo confrontandosi con ostacoli via via crescenti. Gli ostacoli sono di varia natura (l’ambiente e la natura, le regole sociali, i nemici e gli oppositori, i limiti fisici e interiori del personaggio).
Terzo atto
Risoluzione. La scena o sequenza di scene che risponde alla domanda posta all’inizio: il protagonista raggiunge la sua meta o no?
Questa divisione in tre atti “pura” ha un vantaggio: davanti a una storia si capisce benissimo quali sono gli atti, senza possibilità di equivoco. Tuttavia ha il difetto di essere poco utile come bussola per chi scrive. Molte storie diventano infatti un unico enorme secondo atto. Pensate al classico thriller dove alla prima scena si scopre il cadavere di un serial killer e alla seconda si stabilisce la volontà del detective di catturare l’assassino. A quel punto inizia il secondo atto che prosegue fino alla penultima scena in cui il detective piglia l’assassino oppure (più raramente) muore o rinuncia all’impresa.
Insomma, questa divisione in atti è chiara ma inutile: l’intera storia, a parte due scene in testa e due in coda, diventa un infinito secondo atto.
Nella pratica invece è di grande utilità poter “scomporre” una storia in tre atti di lunghezza analoga. Pensare di scrivere una storia appare un compito infinito: l’idea di scrivere un buon primo atto è già più abbordabile. Ecco perché ritengo più utile la struttura in tre atti “modificata”, che amplia il primo e il terzo atto componendo la storia in tre parti quasi uguali.
Il difetto della “struttura modificata” è che poi distinguere gli atti diventa una faccenda da glossatori medievali: in America si litiga sui forum per stabilire quale sia – su un certo film – la vera fine del primo atto, o il vero inizio del terzo. E a volte non riescono a mettersi d’accordo.
Ma noi non siamo critici o studiosi, siamo artigiani. Non ci interessa avere la chiave di lettura “giusta”, ma uno strumento che ci aiuti.
La struttura in tre atti “modificata” funziona meglio allo scopo. Tra quelle che conosco, io prediligo la versione di McKee alla quale ho a mia volta apportato alcune modifiche. Non perché pensi di essere più bravo (per carità) ma solo perché gli strumenti pratici vanno adattati a se stessi. Io l’ho fatto scrivendo: mi accorgevo che mi distaccavo dallo schema sempre allo stesso modo, e così, nella mia testa, l’ho aggiornato alle mie inclinazioni.
Quello che vi sottoporrò nella prossima lezione è dunque lo schema di una struttura in tre atti “modificato” alla McKee, e poi un altro pochino anche da me (raccomando però assolutamente di leggere per intero il libro di McKee, citato in bibliografia: ne vale assolutamente la pena).